Per noi è complesso far collimare l’idea di un Dio sovrano e nel contempo buono ed amorevole perché, secondo la nostra logica, se è buono e ci vede soffrire allora è impotente davanti al dolore, mentre se può agire e non lo fa è crudele. Non può avere entrambi i caratteri insieme. Le due cose, ai nostri occhi, non possono coesistere.
Siamo Uomini che soffrono nelle mani di un Dio sovrano e ci siamo finora posti 5 domande davanti al dolore:
La sovranità di Dio è veramente assoluta?
Si. Ha il controllo illimitato su ogni minimo dettaglio delle nostre esistenze.
Come gestisce la sua sovranità?
I° Mediante una saggezza infinita … perché Lui non spera mai di aver fatto la scelta giusta, sa già di averla compiuta.
II° In modo profondamente amorevole … perché se Dio ci ha amato quando eravamo lontani da Lui, ancor più ci amerà ora che siamo stati riconciliati con Lui “in Cristo”.
Su cosa si estende il Suo dominio?
I° Sulla natura … perché, nonostante il mondo si trovi sotto maledizione, non lo ha abbandonato a sé stesso. Dio continua a governarlo e controllarlo nel minimo dettaglio.
II° Sui cuori delle persone … perché è in grado, senza violentarne la personalità, di farci compiere scelte libere e volontarie che contribuiscano al compimento del disegno divino.
L’uomo resta ugualmente responsabile davanti a Lui?
Si. Dio è in grado di compiere il suo progetto lasciando che ogni persona agisca esattamente come vorrebbe, rimanendo spiritualmente e moralmente responsabile delle proprie scelte.
Posso realmente fidarmi di Lui?
Si. Anche se non capisco e spesso non condivido ciò che sta permettendo nella mia vita, Lui sa cosa sta facendo. Dio capisce il mio dolore, mi ama veramente e posso essere certo che utilizzerà la sua sovranità con bontà nei miei confronti.
Oggi ci porremo quest’ultima domanda: Perché permette la sofferenza dei Suoi figli?
I° Per farci maturare / II° Per rafforzare la nostra fede / III° Per fortificare la nostra adorazione attraverso la riconoscenza
Per farci maturare
Giacomo 1:2-4 Fratelli miei, considerate una grande gioia quando venite a trovarvi in prove svariate, 3 sapendo che la prova della vostra fede produce costanza. 4 E la costanza compia pienamente l'opera sua in voi, perché siate perfetti e completi, di nulla mancanti.
L’autore di questa lettera è il fratellastro di Gesù, una delle 3 colonne della chiesa di Gerusalemme insieme a Pietro e Giovanni. Secondo lo storico Giuseppe Flavio, subì il martirio nel 62 d.C. Conobbe quindi per esperienza diretta la sofferenza più atroce.
I destinatari della lettera sono i credenti di origine giudaica, dispersi a motivo delle agitazioni politiche causate dalla scelta di Erode Agrippa, il quale, come riportato in Atti 12, decise di mettere a morte l’apostolo Giacomo e di perseguitare i cristiani per conquistare un maggior favore da parte del popolo su cui regnava. A tali persone scrive affermando che avrebbero dovuto imparare a vedere gli eventi della vita sotto un’ottica completamente differente. Infatti, la naturale reazione umana davanti alle prove, ossia le difficoltà e le ingiustizie, non è affatto quella di “gioire” ma di preoccuparsi, scoraggiarsi o lamentarsi. Le prove hanno la naturale tendenza a sottrarci gioia, pace e serenità. L’autore, al contrario, li invita a realizzare che tali eventi non sono mai fini a loro stessi, ma sono inviati da Dio al fine di valutare ed alimentare la forza e la qualità della loro fede. Una fede provata risulterà costante, ossia perseverante e resistente fino al momento in cui Dio non stabilirà che tale peso debba essere tolto dalle spalle di colui che lo sta portando. La finalità ultima è essere resi “perfetti”. Tale termine non si riferisce ad una condizione di assenza di peccato, ma di una maggior maturazione spirituale. Infatti, gioire durante le difficoltà non ci riesce affatto né facile né quantomeno naturale. Se facciamo già fatica a sopportare il dolore, come faremo addirittura a rallegrarci per ciò che lo sta causando? Lo potremo fare soltanto se sapremo guardare oltre la circostanza e fissare lo sguardo sui benefici che tale situazione comporterà. Deve essere chiaro ai nostri cuori che Dio non ci dirà mai di rallegrarci per il dolore, ma per il risultato. Nessuno dovrà o potrà mai gioire per aver perso il lavoro, la salute, una persona cara. La gioia dovrà sempre essere legata alla fiducia in quel Dio che lo sta sovranamente permettendo, perché siamo consapevoli che ha il controllo di ogni minimo dettaglio di tale situazione e la sta usando per la sua gloria ed il nostro bene finale.
Ebrei 12:2 fissando lo sguardo su Gesù, colui che crea la fede e la rende perfetta. Per la gioia che gli era posta dinanzi egli sopportò la croce, disprezzando l'infamia, e si è seduto alla destra del trono di Dio.
L’autore di Ebrei esortava i suoi lettori a concentrarsi unicamente su Gesù, il quale era l’oggetto della loro fede e la fonte della loro salvezza. Egli era sia colui che aveva messo nei loro cuori la fede, che colui che per primo aveva iniziato e portato a termine il cammino stesso della fede. L’agonia della morte sulla croce di Gesù dal punto di vista fisico, emotivo e spirituale aveva una finalità ben precisa, la nostra redenzione. Fu tale finalità, unita alla consapevolezza di portare a termine la volontà del Padre e raggiungere la sua massima esaltazione come uomo glorificato, che costituiva la sua gioia. Tale pregustato appagamento fu ciò che gli permise di sopportare un simile dolore, scaturito all’ira del Padre per i nostri peccati.
D'altronde, che le sofferenze facciano parte di un normale processo di sviluppo degli esseri viventi è comprovato anche in natura. Si racconta di un uomo che un giorno, camminando in un bosco, notò una farfalla che cercava, lottando con tutte le proprie forze, di uscire dal proprio bozzolo. Nel tentativo di alleviare tali sofferenze, mediante un coltellino svizzero, recise il bozzolo e lo allargò. L’insetto ne uscì velocemente e senza più alcuno sforzo, tuttavia tale gesto caritatevole finì per rovinarlo per sempre. Infatti, quel faticoso processo era una parte essenziale dello sviluppo del suo sistema muscolare e serviva per immettere i fluidi del suo corpo nelle sue ali. Non potendole quindi spiegare rimasero piegate e raggrinzite. Limitare quel suo breve ma intenso dolore la rese incapace di volare e facile bottino di tutti i suoi predatori. Pertanto, la sua breve vita finì senza che potesse raggiungere lo scopo per cui da crisalide si era trasformata in farfalla.
Ecco perché non solo Giacomo, ma anche Paolo associa la nostra maturazione alla sofferenza.
Romani 5:3-4 non solo, ma ci gloriamo anche nelle afflizioni, sapendo che l'afflizione produce pazienza, 4 la pazienza esperienza, e l'esperienza speranza.
Occorre premettere che, anche in questo contesto, il dolore è conseguenza della fede in Cristo in un mondo ostile. Era la fede che, nei versetti precedenti, aveva permesso a quei romani di ottenere la giustificazione per grazia e la pace con Dio. Tuttavia, la finalità che Dio vuole farci raggiungere mediante il dolore è sempre la medesima, al di là della natura e delle motivazioni delle singole difficoltà. Il termine usato da Paolo per “afflizioni” è il medesimo a quello utilizzabile per la spremitura delle olive o dell’uva per produrre olio o vino. In pratica si tratta di torchiature, di avvenimenti non comuni ma di situazioni profondamente drammatiche. Essere esposti a situazioni ben più ardue delle normali pressioni della vita produrrà in noi “pazienza”, ossia perseveranza, la capacità di resistere e sopportare enormi pesi senza esserne schiacciati. Vi è una simbiosi invisibile che lega l’afflizione alla perseveranza. La prima ci sprona a perseverare, mentre la seconda ad affrontare l’afflizione affinché ci permetta di maturare spiritualmente. Ciò ci condurrà ad acquisire “esperienza”. Nel greco tale termine è legato al superamento della prova a cui siamo stati esposti. Pertanto, nel momento in cui avremo superato la difficoltà, avremo elementi ancora più forti per coltivare la fiduciosa “speranza” che Dio ci sosterrà anche nelle difficoltà future. In altre parole, crea un circolo “virtuoso”.
Giovanni 15:1-2 «Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiuolo. 2 Ogni tralcio che in me non dà frutto, lo toglie via; e ogni tralcio che dà frutto, lo pota affinché ne dia di più.
Una vite non potata produrrà un minore numero di grappoli a fronte di un elevato numero di tralci. Per poter ottenere il risultato migliore dalla propria vite, il contadino dovrà effettuare costantemente una potatura. Quanto detto per ciò che concerne l’ambito naturale è applicabile anche in campo spirituale. Nel brano in questione vi sono 2 tipi di potature, una radicale per coloro che si atteggiano da cristiani senza esserlo ed una più delicata per chi invece ha con Gesù una relazione vitale. Senza tale lavoro, rischieremmo come tralci di produrre meno frutto, a causa della nostra naturale tendenza ad occuparci di cose che non glorificano il Signore e non contribuiscono alla nostra maturazione. Una situazione dolorosa come una malattia, la perdita del lavoro, un tracollo finanziario o subire il tradimento di persone a noi care ci portano a concentrarci maggiormente su ciò che ha veramente valore eterno.
Giovanni 15:5 Io sono la vite, voi siete i tralci. Colui che dimora in me e nel quale io dimoro, porta molto frutto; perché senza di me non potete fare nulla.
A differenza di quanto si ritiene vero nella nostra società, la quale punta sul “sé” alimentando indipendenza e fiducia in sé stessi, agli occhi di Dio non siamo affatto autosufficienti, perché senza Cristo non siamo in grado di fare nulla. Dio desidera che ricordiamo costantemente che è l’essere “in Cristo” che fa la differenza e per aiutarci a comprenderlo in modo sempre più profondo, il Signore ci fa passare attraverso delle difficoltà che ci aiutino a riporre più fiducia in Lui che in noi stessi. Per il credente quindi nessun dolore è mai fine a sé stesso o privo di senso. Anche se agli occhi di chi ci osserva dall’esterno le cause che lo provocano potranno apparire come ingiuste, accidentali, irrazionali od un brutto scherzo del destino, egli sa che Dio se ne serve per il nostro bene e la Sua gloria.
Galati 5:22 Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mansuetudine, autocontrollo
Il frutto dello Spirito rappresenta quegli atteggiamenti che caratterizzano coloro che hanno un rapporto personale con Dio e che sono stati da lui rigenerati mediante la fede in Cristo e per opera dello Spirito Santo. I primi 4 spicchi di tale “frutto” si sviluppano maggiormente nelle difficoltà. L’amore, inteso non come un semplice sentimento affettivo ma come un desiderio altruistico di servizio, si manifesta quando il dono di sé ha un prezzo elevato. La gioia, quel senso di pace non legato unicamente alle circostanze favorevoli, ma alla consapevolezza della grazia divina, si mostra matura quando permane nel dolore. La pace, quella calma interiore che deriva dalla certezza della cura divina, si sviluppa quando le avversità la minacciano. La pazienza, quella capacità di perseverare nonostante le offese ricevute da altri oppure le situazioni sgradevoli o dolorose, si sviluppa quando rabbia e frustrazione vorrebbero prepotentemente emergere nella nostra vita.
Poiché queste sono le Sue finalità, sappi che Dio non ti libererà dalla sofferenza fino a quando non avrà raggiunto lo scopo per cui era stata da Lui permessa.
Per rafforzare la nostra fede
Ebrei 13:5 La vostra condotta non sia dominata dall'amore del denaro; siate contenti delle cose che avete; perché Dio stesso ha detto: «Io non ti lascerò e non ti abbandonerò».
L’autore voleva mettere in guardia i lettori dall’effimera tranquillità che il denaro, in tempi di benessere, avrebbe potuto infondere nei loro cuori a scapito della fiducia in Dio. Questo piccolo versetto, nella sua forma originale, contiene 5 negazioni. A differenza delle nostre 2 esprime: “no, non lo farò, io non ti lascerò, no, non ti abbandonerò”. La forza con cui sottolinea tale concetto è estrema. Voleva che chiunque avesse ricevuto tale promessa potesse aggrapparvisi con tutte le proprie energie, che passasse questo messaggio: “non lasciare che circostanze e stati d’animo ti facciano dimenticare che io sono lì con te”.
La fede in Dio supera la comune fiducia umana. Se è istintivo, nei momenti di benessere, riporre fiducia in ciò che al momento ci dona tranquillità (denaro, famiglia, lavoro, amicizie, salute) è pur vero che tendiamo a disperarci quando le avversità demoliscono ciò in cui credevamo. Ossia quando una famiglia si spezza, il denaro finisce, il lavoro si perde, ci si ammala o si viene traditi dall’amico migliore. Ma con Dio è differente. La fede lo scorge mentre ci permette di godere del denaro, della famiglia, del lavoro, della salute e delle amicizie, in quanto realizza che si tratta delle Sue benedizioni. Eppure la fiducia in Lui resta anche quando sembra che le circostanze abbiano il controllo, perché si poggia sulla consapevolezza che Lui le stia comunque governando.
Genesi 45:8 Non siete dunque voi che mi avete mandato qui, ma è Dio. Egli mi ha stabilito come padre del faraone, signore di tutta la sua casa e governatore di tutto il paese d'Egitto.
50:20 Voi avevate pensato del male contro di me, ma Dio ha pensato di convertirlo in bene per compiere quello che oggi avviene: per conservare in vita un popolo numeroso.
L’esperienza di Giuseppe insegna che la fede ha la consapevolezza che Dio non agisce in modo reattivo ma attivo. Lui non interviene semplicemente per cercare di sistemare le cose e far sì che ne esca qualcosa di positivo. Lui le pianifica e poi le permette affinché quella determinata difficoltà raggiunga esattamente la finalità da Lui voluta. Ecco perché fidarsi.
1 Pietro 5:6-7 Umiliatevi dunque sotto la potente mano di Dio, affinché egli vi innalzi a suo tempo; 7 gettando su di lui ogni vostra preoccupazione, perché egli ha cura di voi.
L’umiliazione comporta scegliere di non ribellarsi al piano divino nonostante la sofferenza, lo scoraggiamento ed a volte la disperazione che ne comporta. Infatti, la fede agisce in modo opposto a ciò che ci verrebbe naturale. Noi vorremmo scappare dalle difficoltà, facendoci tuttavia inevitabilmente carico di tutte le preoccupazioni che ne derivano perché non possiamo fuggire da noi stessi. Al contrario, “gettare” su Dio le nostre preoccupazioni significa credere che a volte ci farà uscire, mediante la fede, dalla prova mentre altre volte ci donerà la grazia per poter resistere mentre essa permane. Per entrambe le situazioni occorrerà il medesimo livello di fede.
Spesso la fede viene vista come un atteggiamento per persone deboli ed ignoranti, che non hanno il coraggio di affrontare le difficoltà della vita. Eppure non è affatto così. Anzi, al contrario, spesso è sinonimo di grandissimo coraggio.
1 Samuele 21:12-13 Davide si tenne in cuore queste parole e temette Achis, re di Gat. 13 Mutò il suo modo di fare in loro presenza, faceva il pazzo in mezzo a loro, tracciava dei segni sui battenti delle porte e si lasciava scorrere la saliva sulla barba.
Salmo 56:3-4 Nel giorno della paura, io confido in te. 4 In Dio, di cui lodo la parola, in Dio confido, e non temerò; che mi può fare il mortale?
Il salmo letto fu scritto a seguito della cattura di Davide da parte dei filistei in Gat, la città da cui proveniva Goliath, il gigante da lui ucciso. Dubitando della liberazione divina, per salvarsi la vita fece qualcosa di inaccettabile per la mentalità orientale, perché farsi scivolare la saliva sulla barba oltraggiava la dignità personale in modo del tutto simile a quando qualcuno gli sputava in viso. Nonostante fosse un prode guerriero, il suo coraggio non bastò per aiutarlo ad eliminare del tutto ogni preoccupazione. Eppure il salmo mostra che, nel proprio cuore, era consapevole che la sua liberazione non sarebbe avvenuta per il suo gesto di codardia ma per la grazia divina. Il salmo mostra infatti che, anche in quei momenti, la sua fede non venne meno e ad essa si aggrappò. Ma non fu la fede a mostrare la sua codardia, piuttosto, la paura si manifestò quando la fiducia in Dio vacillò.
La fiducia nel Signore non è un atteggiamento legato alla cultura, alla tradizione od alla superstizione. Non è neppure un abbandonarsi alle promesse divine da intendersi come una scelta “passiva”. Al contrario, è un atto di estrema determinazione di un cuore che decide, con vigore, di aggrapparsi alle promesse ed alle dichiarazioni divine a qualunque costo.
Salmo 50:15 poi invocami nel giorno della sventura; io ti salverò, e tu mi glorificherai».
La fede, davanti ad una dichiarazione simile, risponde: “io ti prendo in parola, io credo con tutte le mie forse che farai ciò che hai promesso con i tuoi tempi, i tuoi mezzi e nel modo che riterrai opportuno”. È una scelta forte, dinamica, fatta per contrastare le nostre scelte emotive o dettate semplicemente da logiche pragmatiche. Avere fede quindi è innanzitutto un atto della volontà, non un banale stato emotivo. Al contrario, saranno piuttosto i sentimenti ad essere influenzati dalla volontà che sceglie di fidarsi di Dio, mai il contrario. La fede sceglie consapevolmente di credere nella Sua bontà, provvidenza e sovranità e di mantenere i pensieri fissi sulle qualità che abbiamo compreso di Dio. Sceglie di non farsi dominare da sentimenti di ansia alimentata dai dubbi. Sceglie di abbandonarsi alle Sue promesse ed alle dichiarazioni che Dio fa di sé stesso nonostante i sentimenti contrastanti che sperimenteremo nelle circostanze nelle quali saremo coinvolti. Fidarsi di Dio significa accettare anche che il dolore sia presente nella nostra vita, credendo che Lui lo stia permettendo per il nostro bene e la sua gloria. Spesso, la preghiera della fede sarà: “scelgo ancora di fidarmi di Te, anche se non lo sento, anche se non ne avrei voglia, anche se ho paura”.
Poiché la fede è sempre un esercizio della volontà, non vi sarà mai una stagione della vita in cui sarà facile esercitarla. Infatti nel benessere tendiamo a dimenticare la cura divina, nelle avversità a dubitarne.
Ecclesiaste 7:14/a Nel giorno della prosperità godi del bene, e nel giorno dell'avversità rifletti. Dio ha fatto l'uno come l'altro
Quando godiamo il benessere è più facile riporre fiducia negli strumenti che Dio ci sta dando piuttosto che in Dio stesso. Se tramite il lavoro Dio provvede per noi il necessario ed anche di più, saremo portati a fare del lavoro un idolo ed a porre in esso le nostre speranze. Le circostanze straordinarie, quelle delle grandi svolte, siano esse positive o negative, sono semplicemente degli sporadici momenti in una vita. È nella quotidianità monotona ed abitudinaria che la fede viene affinata per il giorno della sofferenza. La tua fede non viene addestrata durante la tempesta, ma mentre la navigazione è tranquilla. Se ti illudi di riuscire a cavartela da solo quando il mare è calmo, non sarai mai in grado di affidarti veramente a Dio durante la burrasca.
Per fortificare la nostra adorazione attraverso la riconoscenza
Giobbe 1:20-21 Allora Giobbe si alzò, si stracciò il mantello, si rase il capo, si prostrò a terra e adorò dicendo: 21 «Nudo sono uscito dal grembo di mia madre, e nudo tornerò in grembo alla terra; il SIGNORE ha dato, il SIGNORE ha tolto; sia benedetto il nome del SIGNORE».
La perdita dei propri beni e dei figli causò un dolore inimmaginabile nel cuore di Giobbe, ciò nonostante non reagì con disprezzo nei confronti di Dio. Non maledisse Dio ma lo adorò.
La reazione di Giobbe fu motivata dalla riconoscenza. Lui non ebbe la pretesa di pensare che il benessere fosse un diritto, ma un dono. Se Dio aveva donato tutto fino a quel momento, aveva anche il diritto di riprenderselo. Non è affatto facile da accettare, ma questo comporta avere un Dio e non essere il dio della propria vita. Ecco perché non reagì con rabbia ma si prostrò per adorare. Guardando in alto Giobbe vedeva un Dio potente, sovrano e misericordioso mentre guardando a sé stesso vedeva una semplice creatura limitata e spesso inadatta nel proprio ruolo di adoratore di un Dio simile.
Ogni tuo respiro ed ogni gioia è un dono che non meriti. Comprendere questa verità alimenterà e sorreggerà un’adorazione riconoscente nella sofferenza.
Romani 8:28 Or sappiamo che tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano Dio, i quali sono chiamati secondo il suo disegno.
1 Tessalonicesi 5:18 in ogni cosa rendete grazie, perché questa è la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi.
La riconoscenza è uno degli elementi di cui l’adorazione si compone, mentre la mancanza di gratitudine è uno degli elementi distintivi di un cuore che non ha una relazione con Dio. Non a caso, vi è una relazione strettissima tra il “tutte le cose” e “in ogni cosa”. Se Dio, come abbiamo visto, è sovrano, saggio e buono e sceglie di usare tali caratteristiche per farci sempre del bene, a noi non resta che adorarlo mediante la riconoscenza. Se abbiamo la certezza che guida sovranamente, con bontà e saggezza ogni dettaglio della nostra vita, occorrerà ringraziare sia nei momenti di benessere che di avversità. Non possiamo però illuderci di essere autonomamente in grado di farlo, occorrerà chiedere a Dio si aiutarci, perché occorre ammettere che l’unica cosa che sappiamo fare molto bene è lamentarci, essere insoddisfatti e concentrarci unicamente su ciò che ancora ci manca. Non a caso, Satana ha fatto leva proprio sull’insoddisfazione per far peccare i nostri 2 progenitori. Chi coltiva la riconoscenza mostra dipendenza e non presunzione, mostra che lo Spirito Santo sta realmente cambiando dall’interno il suo cuore.
Siamo Uomini che soffrono nelle mani di un Dio sovrano e ci siamo posti quest’ultima domanda: Perché permette la sofferenza dei Suoi figli?
Per farci maturare … e non ci libererà fino a quando non avrà raggiunto tale scopo.
Per rafforzare la nostra fede … addestrandoci mentre la navigazione è tranquilla, per prepararci alla tempesta.
Per fortificare la nostra adorazione attraverso la riconoscenza … perché un cuore incredulo considererà sempre il benessere un diritto, ma non saprà mai apprezzarlo veramente. Al contrario, un cuore la cui fede è stata fortificata dalla sofferenza saprà apprezzare il benessere, perché ha imparato ad adorare con riconoscenza anche durante il dolore.
Patrick Galasso